UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FERRARA
FACOLTÀ DI ECONOMIA
Corso di Laurea in Economia e Gestione delle Imprese edegli Intermediari Finanziari
I DISTRETTI DI ECONOMIA SOLIDALE:
ANALISI DELLE NUOVE REALTÀ
Relatore: Chiar.mo Prof. Giovanni Masino
Laureando: Nicola Oselladore
Anno Accademico 2004 - 2005
INDICE
INTRODUZIONE
Capitolo I
IL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE
1.1 Definizione e motivi di un commercio equo e solidale
1.2 Obiettivi, criteri e soggetti coinvolti
Capitolo II
I DISTRETTI DI ECONOMIA SOLIDALE
2.1 Perché progetto DES
2.2 Percorso verso le Reti di Economia Solidale
2.3 Che cos’è progetto DES
2.4 Principi e criteri dei DES
2.5 Soggetti promotori e attività dei DES
2.6 Come si finanzia un DES
2.7 Punti di forza e di debolezza dei DES
2.8 Gli attori del mondo etico
Capitolo III
UN CASO CONCRETO: IL DES DI TORINO
3.1 I progetti in corso in Italia
3.2 Sviluppo del Distretto di Economia Solidale di Torino
3.3 Programma di lavoro del DESTO
3.4 I partner, i rispettivi ruoli e la percentuale di budget all’interno del distretto
Capitolo IV
CONFRONTO CON I DISTRETTI INDUSTRIALI
4.1 Analisi situazione Distretti tradizionali
4.2 Rimedi possibili per i distretti
4.3 Confronto fra i due tipi di distretto
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
INTRODUZIONE
Al termine del mio corso di studi universitari ho deciso di svolgere una tesi su un tema economico di attualità e dopo alcune ricerche ho deciso di affrontare il tema dei Distretti di Economia Solidale.
I DES sono la risposta italiana all’evoluzione del commercio equo e solidale Italiano e stanno per essere istituiti in questo periodo nel nostro paese.
L’esperienza del Commercio Equo e Solidale (CEeS) nasce all’incirca quarant’anni fa quando, in una piccola città olandese, un gruppo di giovani inaugura la prima world shop (Bottega del Mondo, Bdm), senza immaginare quale straordinario sviluppo avrebbe avuto il movimento del fair trade (tradotto in italiano Commercio Equo e Solidale) negli anni successivi, fino a oggi.
Gli obiettivi che, ancora oggi, guidano l’azione del CEeS sono quelli di creare maggiore equità all’interno del commercio mondiale, dando così la possibilità ai soggetti più svantaggiati di poter entrare a far parte del sistema, cosicché possano loro stessi svilupparsi e dotarsi di un sistema economico sano ed efficiente che dia loro la capacità di uscire da una povertà che in alcuni casi ne mina addirittura la sopravvivenza.
Questo tipo di commercio è nato in Italia solo negli anni ottanta, per questo motivo il nostro paese in questo campo ha vissuto uno sviluppo meno rapido, ma non per questo ci stiamo muovendo nella direzione sbagliata.
Il punto è che con il nuovo millennio si sono aperti scenari diversi e molteplici; al commercio equo infatti appartiene ormai un ventaglio enorme di prodotti, circa settemila, e per questo motivo ormai le botteghe del mondo, che sono sparse in tutta Europa, non ce la fanno più a garantire lo sviluppo di questo commercio, il quale negli ultimi anni ha conosciuto uno sviluppo incredibile.
Per questo motivo i principali attori di questo settore, grazie a Rete Lilliput, Gas, ecc, hanno pensato che se veramente cerchiamo uno sviluppo importante e significativo di questa realtà economica bisogna fare il salto di qualità, cioè bisogna uscire dallo stereotipo delle botteghe (che in questi anni sono state l’unico sbocco economico per i prodotti dell’economia solidale), bisogna lanciarsi in un progetto su larga scala che dia la possibilità al commercio equo di aumentare il proprio peso e la propria rilevanza, e dunque di diffondere il più possibile i valori e gli ideali del CEeS, e dia così la possibilità al mondo di commerciare attraverso l’uso di principi equi e solidali.
L’Italia dunque risponde al bisogno di ampliamento del mercato attraverso l’istituzione dei distretti di economia solidale, il quale prende spunto dai nostri distretti industriali, i quali sono un’organizzazione economica tipica italiana, che ci ha fatto distinguere nel mondo attraverso il Made in Italy.
Questi però negli ultimi anni stanno avendo un momento di forte decrescita a causa del cambiamento delle regole economiche e della depressione che sta attraversando il nostro paese, anche in questo senso i DES potrebbero rappresentare uno strumento interessante al fine di valorizzare e se possibile rilanciare la struttura distrettuale della nostra economia.
Quindi nello sviluppare questa mia idea cercherò di analizzare i DES evidenziandone le caratteristiche principali e gli obiettivi, analizzerò inoltre alcuni fra i possibili collegamenti individuabili tra i distretti tradizionali, in particolare in questo periodo di difficoltà, e una nuova idea di distretto rappresentata dai DES.
Dal punto di vista metodologico, oltre allo studio e alla rielaborazione della letteratura in materia, la ricerca è stata integrata e approfondita attraverso la partecipazione di convegni che mi hanno dato la possibilità di poter conoscere persone che stanno lavorando per la realizzazione di queste realtà sociali, le quali hanno aiutato lo sviluppo delle idee e la comprensione dell’argomento trattato.
Per questo motivo mi sento di dover ringraziare Davide Guidi ed il Professore Mauro Bonaiuti che hanno fatto si che questo lavoro divenisse non solo una ricerca prettamente improntata sullo studio bibliografico, ma anche un lavoro di approfondimento.
Nella prima parte viene dunque analizzato il commercio equo e solidale, questo con lo scopo di dare la possibilità al lettore di comprendere a fondo il campo d’azione in cui operano i distretti industriali.
Nella seconda parte invece si è voluto analizzare nel dettaglio la realtà costituita dai DES, partendo dalle loro caratteristiche teoriche sino ad arrivare a raccontare nello specifico un caso concreto, il quale ha lo scopo di far capire ancora più approfonditamente gli scopi e le finalità del movimento delle reti.
Nell’ultima parte infine si è cercato di allargare il discorso chiamando in causa i nostri famosi distretti industriali, i quali sono stati analizzati ed in seguito confrontati con i DES, dando la possibilità di arrivare a degli spunti di discussione veramente interessanti.
CAPITOLO I
IL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE
1.1 Definizione e motivi di un Commercio Equo e Solidale
Quello del commercio equo è un movimento di base, la cui spina dorsale sono i cittadini, non le industrie o le istituzioni ed è concentrato più sul fare che sugli aspetti formali. Non deve sorprendere che esistano varie definizioni di commercio equo e solidale (CEeS) e che solo nell’autunno 2001 il coordinamento informale delle reti di commercio equo, denominato Fine (acronimo che raccoglie l’organizzazione di marchio Flo, la federazione internazionale Ifat, il network delle botteghe del mondo News! E l’associazione dei maggiori importatori europei Efta) abbia raggiunto una sintesi comune:
“Il commercio equo è una partnership commerciale, basata sul dialogo, la trasparenza e il rispetto, che mira a una maggiore equità nel commercio internazionale. Contribuisce allo sviluppo sostenibile offrendo migliori condizioni commerciali a produttori svantaggiati e lavoratori, particolarmente nel sud, garantendone i diritti. Le organizzazioni del commercio equo, con il sostegno dei consumatori, sono attivamente impegnate a supporto dei produttori, in azioni di sensibilizzazione e in campagne per cambiare regole e pratiche del commercio internazionale convenzionale”[1].
Il commercio equo, infatti, da vita a relazioni commerciali fondate su regole e criteri che pongono in primo piano, non la massimizzazione del profitto, bensì l’instaurazione di relazioni paritarie con i partners dei Paesi meno sviluppati, in modo da avviare, in tali Paesi, processi di sviluppo e di autosviluppo basati sul rispetto delle persone e dell’ambiente.
L’attività commerciale vera e propria è affiancata da una continua ed intensa attività di educazione e informazione, volta ad accrescere consapevolezza e attivismo della popolazione civile riguardo tematiche tanto importanti quali la povertà e l’arretratezza dei Paesi sottosviluppati e le cause di tali squilibri.
Per comprendere le ragioni per cui si è sentita l’esigenza di creare un sistema così strutturato e quali sono le realtà che il commercio equo, anche attraverso l’istituzione dei Distretti di Economia Solidale (DES), denuncia e si propone di modificare mi soffermerò ad esporre le caratteristiche principali per cui, secondo gli attori del commercio equo e solidale, il commercio internazionale stia recando squilibri all’interno del sistema economico mondiale.
Dai dati raccolti nel 1997 infatti si riesce a cogliere che la disparità di reddito tra il quinto della popolazione mondiale che vive nei paesi più ricchi e il quinto che vive nei paesi più poveri è di 74 a 1, mentre era di 60 a 1 nel 1990 e di 30 a 1 nel 1960.
Alla fine del 1997 il 20% della fascia più ricca detiene l’86% del reddito mondiale, mentre il 20% della fascia più povera si deve accontentare dell’1%. Il quinto della popolazione mondiale più ricca nei Paesi industrializzati beneficia dell’82% del commercio internazionale e del 68% degli investimenti diretti esteri, mentre il quinto più povero beneficia di un po’ più dell’1%[2].
Dunque, la differenza fra abbienti e poveri cresce all’interno dei singoli stati soprattutto negli ultimi trent’anni, riferisce ancora l’Undp[3], le disuguaglianze sono aumentate in quarantadue Paesi sui settantatré di cui si hanno dati certi (che rappresentano quasi l’80% della popolazione totale) e solo sei Paesi in via di sviluppo (PVS) su trentatré hanno assistito a una diminuzione del divario.
Si rafforza sempre più l’idea che l’imputata numero uno dell’inasprimento della disuguaglianza sia la globalizzazione, nel senso liberista impresso a questo fenomeno dalle istituzioni che più di altri l’hanno promosso: l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale. Una tendenza contestata non solo dai movimenti sociali da Seattle[4] in poi, ma anche da economisti e studiosi, è il caso dell’economista Joseph Stiglitz, premio Nobel nel 2001, dal 1993 al 1997 consigliere economico di Bill Clinton e successivamente per quattro anni numero uno della Banca mondiale, lasciata dopo aver denunciato l’impatto devastante della globalizzazione sui paesi poveri.
Infatti nel suo libro[5] Stiglitz traccia un pesantissimo atto di accusa alle organizzazioni internazionali (Fmi in testa) che hanno preso le redini dell’economia e della finanza globale:
«Il Fondo monetario internazionale», sostiene Stiglitz, «è rimasto ancorato all’epoca precedente a Keynes. Credo che la globalizzazione possa essere un’opportunità per aumentare il benessere di tutti, ma è necessario ripensare a fondo il modo in cui è stata gestita. Bisogna rivedere gli accordi commerciali internazionali che hanno contribuito all’eliminazione delle barriere al libero scambio e le politiche imposte ai paesi in via di sviluppo»[6].
L’economista nordamericano approfondisce le ricette volute dai fautori del neoliberismo, fatte di tagli alla spesa sociale, di privatizzazioni indiscriminate e di aperture scriteriate al mercato globale. Mette a confronto le politiche di transizione da economie socialiste a quelle di mercato adottate in Russia e in Cina e dimostra che hanno ottenuto migliori risultati proprio quei paesi che non hanno seguito le indicazioni provenienti dalle istituzioni di Washington, infine Stiglitz dice che non bisogna semplicemente modificare le strutture istituzionali, ma che bisogna cambiare proprio il modo di intendere la globalizzazione.
Il commercio equo nasce, dunque, per proporre un modello di relazioni internazionali alternativo rispetto a quello della globalizzazione; compie il tentativo di riequilibrare i rapporti tra popolazioni del Nord e del Sud del mondo e lo fa proponendo un modello di sviluppo per queste ultime, non fondato su un programma di assistenzialismo, bensì sulla costruzione di relazioni commerciali paritarie che permettano ai lavoratori dei Paesi in via di sviluppo di riacquistare dignità e di acquisire le conoscenze e le capacità, anche materiali, che permettano loro di avviare progetti di autosviluppo che li renda liberi e indipendenti dai Paesi ricchi.
Il movimento del commercio equo e solidale, infatti, trae ispirazione dallo slogan “Trade not Aid” lanciato da UNCTAD[7] durante la Conferenza di Ginevra del 1964, in linea con le nuove idee che in quel periodo stavano maturando circa la cooperazione con i Paesi economicamente svantaggiati: non più solo aiuti allo sviluppo, ma nuove azioni sui dazi doganali per facilitare l’ingresso dei prodotti di tali Paesi nel mercato del Nord del mondo[8].
1.2 Obiettivi, criteri e soggetti coinvolti
Come si desume dalle definizioni, il CEeS mira a migliorare le condizioni di vita dei produttori, specie dei gruppi più svantaggiati, nei Paesi in via di sviluppo questo attraverso relazioni commerciali che sovvertono le normali regole del gioco internazionale e che portino alla costruzione di un rapporto equo e paritario con i partner del Sud, permettendogli in tal modo di avere un maggiore potere di mercato. Il fine ultimo è che i produttori, con l’iniziale appoggio del CEeS, riescano a riscattarsi dalla loro condizione di miseria per avviare processi di auto sviluppo; non vuole essere una forma di assistenzialismo.
Per realizzare ciò è necessario compiere un’importante opera di sensibilizzazione e informazione, non solo verso i consumatori, ma anche verso le istituzioni.
Per quel che riguarda i primi, il CEeS ha l’obiettivo di far conoscere loro, attraverso la vendita dei prodotti importati, la storia e la vita di produttori lontani, per far prendere coscienza dei problemi che investono milioni di persone e delle possibilità che ciascuno ha di partecipare alla loro attenuazione, anche solo attraverso le proprie scelte di consumo quotidiane. Nei confronti delle istituzioni, invece, il CEeS è impegnato affinché questo modo di fare commercio venga ufficialmente riconosciuto come una forma di cooperazione allo sviluppo e come tale, sostenuta e condivisa.
Obiettivo del CEeS è, comunque, quello di ottenere relazioni economiche più eque per tutti, nel Sud come nel Nord, rapporti di lavoro che non violino i diritti fondamentali, rispetto per la persona e per l’ambiente.
Tutti i soggetti coinvolti nella catena di produzione e commercializzazione dei prodotti del Commercio Equo, sono tenuti a rispettare alcuni fondamentali criteri, miranti a garantire la realizzazione degli obiettivi del movimento stesso.
Gli importatori del Nord devono inoltre garantire ai produttori del Sud un prezzo che consenta loro, e alle loro famiglie, di soddisfare i bisogni essenziali e di accedere a un livello di vita dignitoso.
Un prezzo che garantisca non solo la completa copertura dei costi di produzione, ma che contribuisca anche a soddisfare almeno le necessità primarie e che dia la possibilità di accantonare risorse da utilizzare per il miglioramento dei sistemi produttivi o per lo sviluppo di iniziative di carattere sociale; un prezzo, se è possibile, che oltre a coprire l’intero costo della produzione del bene, includa anche i costi ambientali e sociali. Ciò è possibile se il prezzo viene concordato, nell’ambito di un rapporto paritario, dall’importatore con il produttore, l’unico in grado di conoscere perfettamente i costi di produzione sostenuti; non un prezzo, quindi, imposto dagli importatori o dagli intermediari sulla base del loro potere contrattuale e di mercato, come normalmente avviene quando operatori tradizionali si relazionano con partners in posizione svantaggiata.
Il CEeS riesce a garantire ai produttori una remunerazione maggiore rispetto a quella tradizionale facendo in modo che una quota maggiore del prezzo finale venga loro assegnata. Perché il CEeS sia veramente efficace bisogna che conti su rapporti continuativi tra importatori e produttori in modo che questi possano programmare la loro attività nel medio-lungo periodo e che si possa instaurare una più stretta collaborazione tra i due operatori, incentivando entrambi a comportarsi nel modo più corretto possibile. Anche per questo motivo le organizzazioni del CEeS concedono ai produttori, al momento dell’ordine, un anticipo sul valore della merce, in genere nell’ordine del 50% del valore complessivo.
Questa pratica svolge la funzione fondamentale di fornire ai produttori le risorse necessarie per dare il via alla produzione. Se così non fosse essi dovrebbero intaccare le riserve destinate alla sussistenza, peraltro già scarse, o, ancora peggio, dovrebbero fare ricorso all’indebitamento, rivolgendosi a soggetti esterni ai normali circuiti di credito, che praticano interessi usurai, innescando un circolo d’indebitamento senza fine.
Quindi tutte le organizzazioni operanti nel CEeS devono garantire il rispetto dei diritti dei lavoratori sanciti dalle convenzioni OIL[9], non ricorrere al lavoro infantile o allo sfruttamento del lavoro minorile; non devono, inoltre, operare discriminazioni in base al sesso, l’età, la condizione sociale, la religione, e le convinzioni politiche.
I soggetti che fanno parte di questo sistema economico sono i produttori, generalmente sono agricoltori o artigiani sparsi in tutti i Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina: si stima che attualmente siano circa 1000 le organizzazioni coinvolte, tra produttori ed esportatori all’origine, per un totale di un milione e 200mila persone al lavoro, contadini, artigiani e tecnici. Ci sono poi le centrali di importazione che curano i rapporti con i produttori, l’importazione e la diffusione dei prodotti presso i punti vendita.
Infine ci sono le Botteghe del mondo, che sono organizzazioni senza fini di lucro che fungono da distributori finali per i prodotti del CEeS, ma non solo: parte integrante della loro attività è costituita dall’effettuare opera d’informazione, sensibilizzazione e promozione culturale del consumo socialmente responsabile.
Negli ultimi anni si sono aggiunte nuove figure organizzative che hanno lo scopo di dare una spinta maggiore al movimento del CEeS: sono i Distretti di Economia Solidale che attraverso l’utilizzazione di principi propri dei nostri Distretti Industriali Italiani vogliono cercare di dare sfogo alla crescita del Commercio Equo al fine di riuscire a soppiantare il sistema economico voluto dal WTO.
CAPITOLO II
I DISTRETTI DI ECONOMIA SOLIDALE
2.1 Perché progetto DES
I primi passi che hanno portato a mettere in pratica, in Italia, i principi del CEeS, sono stati fatti dalla Cooperativa Sir John di Morbegno, in provincia di Sondrio, la quale nel 1976 cominciò a importare articoli in juta dal Bangladesh, in virtù dello stretto rapporto con il missionario Giovanni Abbiati, per poi rivenderli attraverso fiere e banchetti; a Bressanone (BZ) nel 1981 venne aperta una bottega collegata alla centrale d’importazione austriaca EZA, grazie ai locali messi a disposizione dalla chiesa cattolica. Una delle tappe senza dubbio più importanti del movimento CEeS italiano è stata la nascita della cooperativa Cooperazione Terzo Mondo (oggi Ctm Altromercato), da cui si staccherà dopo qualche anno uno dei soci (Ferrara Terzo mondo) per dare vita a Commercio Alternativo, che oggi è la seconda centrale di importazione in termini di fatturato.
Nel 1991 nacque l’Associazione delle Botteghe del Mondo; altro passo fondamentale per arrivare a promuovere l’idea di DES in Italia è stato fatto nel luglio 1999 quando il Tavolo delle Campagne[10] lancia l’idea di una rete costituita da gruppi di base attivi in Italia sui temi internazionali, cercando di riprodurre su scala locale idee ed esiti che avevano prodotto il Tavolo.
Il CEeS è dunque arrivato in Italia in ritardo rispetto ad altri Paesi Europei, ma non per questo siamo oggi a livelli di sviluppo inferiori alle altre realtà; infatti il nostro giro d’affari complessivo è passato da poco più di venti milioni di euro nel 1999 a circa sessanta milioni nel 2003.
In meno di tre anni sono nate cento botteghe del mondo (a metà 2003 erano 437 i punti di vendita totali), con una media di una nuova entrata ogni dieci-quindici giorni, inoltre secondo una ricerca Doxa del 2002 più del 23% della popolazione italiana conosce il CEeS. Centrali di importazione, botteghe del mondo, marchio di garanzia: tutti hanno trainato lo sviluppo e l’Italia si è popolata di una serie di gruppi che spontaneamente decidevano di investire denaro, tempo e passione nel commercio equo.
Nonostante i progressi fatti e quelli in corso, i limiti del commercio equo in Italia sono molteplici, restano in buona parte attuali i risultati dell’indagine condotta dalla cooperativa Pangea, che riassume così i lati deboli della rete: strutture poco sviluppate, difficile o inesistente rapporto con i media, scarso dinamismo nel reperire risorse umane e finanziarie, poca collaborazione con altri soggetti esterni al movimento con i quali è possibile però avviare un dialogo, ma soprattutto, le quote di mercato del commercio equo in generale, e ancor più dei negozi, sono allo stato attuale troppo basse per soddisfare le esigenze dei produttori.
Alla luce di queste conclusioni gli attori del CEeS Italiano, pur tenendosi saldi ai valori e ai principi di fondo, hanno cominciato a cambiare pelle. Le maggiori dimensioni, le nuove sfide, la complessità di un commercio che deve far quadrare i conti e rispettare le scelte etiche, comportano il bisogno di sviluppare nuove professionalità e nuove realtà economiche. Ctm sostiene un modello di cooperazione integrata, con l’obiettivo di battere su tutti i tasti del CEeS: reti, servizi e prodotti; il consorzio si è dato una struttura aziendale investendo sulla formazione e sul personale, raddoppiando gli addetti retribuiti fra il 1998 e il 2002, e ha creato i responsabili di area: marketing, comunicazione, educazione, microcredito[11].
Una risposta a questo bisogno di cambiamento la stanno dando le cellule delle reti solidali che si moltiplicano nell’ambito di Distretti d’Economia Solidale che includono consumatori, produttori, commercianti, artigiani e piccoli imprenditori. Ciascuna cellula alimenta l’altra: i membri di una cooperativa d’agricoltura biologica acquisteranno beni e servizi da altri membri della rete, tutti frequenteranno la lavanderia ecologica della zona e acquisteranno merci nei negozi amici. Di cellula in cellula, raccogliendo risparmio e integrando produzione e consumo, la rete può crescere e allargarsi secondo valori e modelli che prescindono dai rapporti di produzione prevalenti e si propongono anzi di massimizzare il benessere collettivo e la tutela dell’ambiente. Attorno a questi concetti si comincia a immaginare una “rivoluzione delle reti” che mette in discussione, e alla fine capovolge, i principi dell’economia capitalistica: alla logica del massimo sfruttamento del lavoro si contrappone l’obiettivo della riduzione del tempo di lavoro; alla libera iniziativa individuale, la libera iniziativa sociale; alla dipendenza dai capitali esterni, la crescita del risparmio interno e così via.
Percorso verso le Reti di Economie Solidali
Il progetto 'RES' (Rete di Economia Solidale) è un esperimento in corso per la costruzione di una economia 'altra', a partire dalle mille esperienze di economia solidale attive in Italia. Questo progetto in costruzione, segue la 'strategia delle reti'[12] come pista di lavoro; intende cioè rafforzare e sviluppare le realtà di economia solidale attraverso la creazione di circuiti economici, in cui le diverse realtà si sostengono a vicenda creando insieme spazi di mercato finalizzato al benessere di tutti.
Questo percorso è stato avviato il 19 ottobre 2002 a Verona nel corso di un seminario sulle 'Strategie di rete per l’economia solidale' promosso dal GLT Impronta Ecologica e Sociale della rete di Lilliput; nel corso del seminario le numerose realtà convenute hanno deciso di affrontare questo viaggio collettivo.
Un primo passo è stata la definizione della 'Carta per la Rete Italiana di Economia Solidale', presentata al salone Civitas di Padova il 4 maggio 2003.
Ora il percorso prevede l’attivazione di reti locali di economia solidale, denominati 'Distretti', come passaggio fondamentale per la costruzione di una futura rete italiana di economia solidale.
L’attivazione di questi esperimenti ha il fine di poter verificare nel concreto, a partire dalla dimensione locale, l’efficacia della strategia delle reti e della democrazia partecipativa, così da consentire la valutazione e la diffusione di queste esperienze.
Questo progetto è sostenuto da un gruppo di lavoro su base volontaria a cui partecipano diversi soggetti dell’economia solidale italiana[13].
La necessità di una trasformazione verso una società conviviale, rispettosa delle persone, dell’ambiente e dei territori è condivisa da molti soggetti che operano in diversi campi: sociale, culturale, ambientale, politico ed economico; la trasformazione che auspichiamo dovrebbe infatti coinvolgere tutti questi aspetti.
Tra le molte, due organizzazioni a rete sono vicine alla Rete di Economie Solidali per condivisione degli orizzonti, degli obiettivi generali e delle modalità operative: queste sono la Rete Lilliput (che ha dato avvio e sostiene la Rete di Economie Solidali) e la Rete dei Nuovi Municipi (che collabora con la Rete di Economie Solidali). La prima opera principalmente attraverso strumenti di sensibilizzazione e pressione, mentre la seconda agisce in ambito istituzionale attraverso il coinvolgimento degli enti locali.
Queste due reti condividono la prospettiva dello sviluppo locale autosostenibile ed è in primo luogo con esse che si può avviare la costruzione di spazi pubblici territoriali per il raccordo partecipato tra i diversi interventi di trasformazione, a livello dei sistemi ecologico, economico e politico-sociale e valoriale.
La Rete di Economie Solidali, all’interno di tali “spazi pubblici” avrebbe il ruolo di sviluppare l’economia liberata, ed è quindi aperta a collaborare con tutte le altre reti e soggetti che condividano tale prospettiva di fondo o che intervengono sul terreno dell’autosviluppo locale sostenibile.
Per quanto riguarda il campo più specifico della attività economica, in Italia sono già attive diverse organizzazioni di settore che radunano i soggetti che operano in un settore dell’economia; in particolare: AITR (Associazione Italiana Turismo Responsabile), AFE (Associazione Finanza Etica), AGICESS (Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo